A metà della nostra vita terrena mi trovai a vagare in una oscura foresta, perché la via era stata smarrita. Mi è assai difficile descrivere questa selva inospitale, irta di ostacoli e ardua da attraversare, che al solo pensarci risuscita in me la paura.
Il tormento che provoca è di poco inferiore alla sofferenza della morte; ma per arrivare a parlare del bene che vi ho incontrato, dirò prima delle altre cose che in essa ho viste. Ma, giunto alle pendici di un colle, dove terminava la selva che mi aveva trafitto il cuore di angoscia, volsi lo sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già illuminati dai raggi del sole che guida secondo verità ciascuno nel suo cammino. Allora la paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così pietoso affanno, mi aveva afferrato nel profondo del cuore, placò in parte la sua durezza, e con l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con respiro affannato la terraferma, si volge ad abbracciare con lo sguardo afflitto l’immensità degli elementi scatenati, mi volsi indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la impervio luogo da cui nessun essere vivente riuscì mai a venir fuori. Dopo aver riposato un poco il corpo stanco, ripresi la mia salita lungo il pendio desolato, in modo che il piede fermo era sempre più basso rispetto a quello in movimento. Ma, giunto quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco che mi apparve una lince snella e veloce, dal manto chiazzato: essa non si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario ostacolava a tal punto il mio procedere, che più di una volta fui sul punto di tornare indietro. Era l’alba e il sole saliva in cielo nella costellazione dell’Ariete, con la quale si era trovato in congiunzione allorché Iddio creò, dando loro il movimento, gli astri; per questa ragione erano per me auspicio di vittoria su quella belva dalla pelle screziata l’ora mattutina e la primavera, non tanto tuttavia da far si che io non restassi nuovamente atterrito all’apparizione di un leone. Questo sembrava venirmi incontro rabbioso e famelico, col capo eretto, e spargeva intorno a sé tanto spavento che l’aria stessa sembrava rabbrividirne. E una lupa, nella cui magrissima figura covavano frenesie insaziabili, e che già molte genti aveva reso infelici, mi oppresse di tale stupore con il suo aspetto, che disperai di raggiungere la cima del colle. E come colui che, avido di guadagni, quando arriva il momento che gli fa perdere ciò che ha acquistato, si dispiace e si addolora nel profondo del suo animo, tale mi rese l’insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me, mi respingeva nuovamente verso la selva, là dove il sole non penetra con i suoi raggi. Mentre stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso colui che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava ormai incapace di far sentire la sua voce. Quando lo scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: ” Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in carne ed ossa” Mi rispose: ” Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei genitori furono entrambi lombardi, originari di Mantova. Vidi la luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché troppo tardi, e vissi a Roma al tempo di Ottaviano Augusto, principe di gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di divinità false e ingannevoli. Fui poeta, e celebrai in versi le imprese di quel paladino della giustizia, figlio di Anchise, (Enea) che venne da Troia, dopo che la superba città fu incendiata. Ma tu perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle? Perché non ascendi invece il gaudioso colle, dispensatore e origine di ogni perfetta letizia?”. “Sei proprio tu ” risposi riverente ed umile “Il grande Virgilio, sorgente copiosa d’inesauribile poesia? O tu che onori e illumini chiunque coltivi l’arte della poesia, mi acquistino la tua benevolenza l’assidua consuetudine e il grande amore che mi ha spinto ad accostarmi alla tua opera. Tu sei lo scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità indiscussa; sei l’unico dal quale ho appreso il bello scrivere che mi ha dato fama. Guarda la lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il tuo aiuto, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare di paura in ogni fibra.” Virgilio, reso pietoso dalle mie lacrime: “Tu devi, se vuoi uscire da questo luogo duro, seguire una altra strada: perché la belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il cammino a chiunque in essa si imbatte, perseguitandolo senza tregua fino a ucciderlo; e tanto perversa e malvagia è la sua indole, che nulla può placarne gli eccessivi desideri e, invece di saziarla, il cibo ne accresce gli appetiti. Numerosi sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero è destinato a crescere, fino alla venuta di un Veltro, che la ucciderà crudelmente. Né il potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma soltanto le qualità della mente e dell’animo, e la sua nascita avverrà tra poveri stracci. Sarà la salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si immolarono in la giovinetta Camilla, Eurialo e Turno e Niso. Egli darà la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a tornarsene nella sua sede naturale, l’inferno, da dove Lucifero, odio primordiale, la fece uscire. Perciò penso e giudico che, per la tua salvezza, tu debba seguirmi, e io sarò la tua guida, e ti condurrò da qui nel luogo della pena eterna, dove udirai i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di coloro che, fin dalla più remota antichità, soffrono per l’inappellabile dannazione; e vedrai coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei tormenti purificatori del purgatorio, certi di salire prima o poi al cielo. Se tu vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti accompagnerà: con lei ti lascerò al momento del mio distacco; poiché Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa penetrare nella sua città senza essere stato in terra sottomesso alla sua legge. Dio è in ogni luogo sovrano onnipotente e ha in cielo la sua sede; qui si trovano la sua città e l’eccelso trono: felice colui che Dio sceglie perché risieda in cielo” Ed io: ” Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto conoscere, per la mia salvezza temporale ed eterna di condurmi là dove hai detto, tanto che io possa vedere la porta del paradiso e le anime che dici immerse in così grandi pene” Virgilio sì incamminò, e io lo seguii.